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Carlo Melloni (marzo 1984)

 

Ideologia del nodo (1969 – 1984)

 

Il primo “nodo”, Marcolini lo inserisce in un suo dipinto del 1966, ma non ha ancora significato di metafora: è soltanto poco più che una larva, un’astanza. Diventa presenza attante nei dipinti del 1969. Sarebbe interessante scandagliare l’origine della prima apparizione di questo “segnale”, per cercare di individuare e precisare la genesi di una peculiarità iconica, che, nell’arco di un quindicennio, ha caratterizzato in modo direi esaustivo la pittura dell’artista ascolano. Qualcuno ha voluto identificare il nodo marcoliniano in una sorta di mandala, rifacendosi al concetto di archetipo junghiano; così il nodo sarebbe la risultante del conflitto tipicamente umano tra coscienza e inconscio. La struttura geometrica del mandala, impostata sul cerchio e sul quadrato, darebbe sostegno a tale ipotesi, essendo evidente che entrambe queste figure geometriche partecipano alla definizione “architettonica” del nodo. D’altro canto, il cubo, proiezione esponenziale del quadrato, è un simbolo che ricorre spesso nei dipinti di Marcolini.

 

L’ipotesi è affascinante e, tutto sommato, anche accettabile, ma non esaurisce il discorso esplorativo su un medium linguistico, ambiguo e onnivalente, che Marcolini carica di significati particolari e allusivi, fino al punto di utilizzarlo come centro focale di non poche sue composizioni figurative. L’interscambiabilità funzionale del nodo/oggetto con il nodo/soggetto, che prende consistenza non soltanto nell’ambito di alcuni cicli tematici (ad esempio, i dipinti del 1974 nei quali il nodo diventa elemento di arredo in architettura d’interni o quelli dell’anno successivo dove il nodo viene anatomizzato in tavole parascientiste alla stregua di un organismo biologico), si manifesta anche come modalità figurativa compresente in singole unità pittoriche, sicché osserviamo tutta una serie di metamorfosi del nodo: antropomorfo, zoomorfo, geomorfo, ecc. e, come in un gioco di scatole cinesi, all’interno di queste mutazioni genetiche, il nodo interagisce con altri elementi figurativi assumendo, di volta in volta, una precisa intenzionalità psicologica, etica, gnomica. E’ una macrostruttura egemone nella composizione pittorica, il piano nodale – per dirlo con una tautologia – di ogni situazione data, che l’artista assume come emblematica di un modo deviante o aberrante di vivere il quotidiano, di cui il nodo rappresenta, ad un tempo, la causa e l’effetto. Nodo di Salomone e nodo di Gordio, nodo come cordone ombelicale, simbolo fallico, sferza autoflagellate, nodo scorsoio. Eros, Numen e Thanatos.

 

Il nodo è dunque Leviathan e Golem, il “grande fratello” orwelliano, una presenza inquietante, matrice e testimone di ogni misfatto nel quale a poco a poco l’individuo dilapida il patrimonio della sua umanità, il “grande vecchio” della tragedia tutta moderna e pur sempre antica, della violenza indiscriminata e dell’omicidio quale soluzione intermedia della lotta di classe, ma anche la fata Morgana dei nostri sogni irrealizzati, delle nostre illusioni svanite nel nulla. Tipici di questa allusività fin troppo scoperta sono i “nodi politici” (ad esempio, “Watergate”, 1974) o i “Voyages” (1977 – 78), galleria di personaggi politici in positivo o in negativo, o la serie di dipinti intitolati “Viaggio a” (1976 – 77), una sorta di ricognizione dei luoghi deputati dalla storia ad accogliere memorabili e perversi accadimenti, e i dipinti dello stesso periodo (“Ricordo di”) dedicati a personaggi di varia notorietà, corredati di brevi didascalie, che sottolineano le conformistiche informazioni che i mass media ci hanno dato di quegli stessi personaggi o dei fatti che li hanno avuti per protagonisti e, ancora, i dipinti del 1977 nei quali è sintetizzata, in immagini esemplari, la sanguinaria prevaricazione mafiosa.

 

Dal 1979, il nodo scompare dai dipinti di Marcolini. Vi riappare a partire dal 1983, con una diversa accezione semantica rispetto al ventaglio dei significati di cui era stato sovraccaricato nelle esperienze precedenti. Il nodo di queste opere più recenti, che l’autore intitola “Voli”, sembra essere parente prossimo del nodo che campeggiava nei dipinti del 1970, definiti “Paesaggi spaziali”. Innanzitutto, qui il nodo si arricchisce di una indubbia valenza plastica; protagonista in assoluto del quadro, assurge ad una monumentalità persino retorica, disponibile com’è a monopolizzare per sé lo spazio reale, fisico. Ma c’è anche uno spazio virtuale che questo nodo tecnologico non sembra più in grado di occupare. Significa, forse, che Marcolini guarda al futuro con occhio disincantato? Il ciclo di dipinti immediatamente precedente ai “Voli”, con i quali egli prefigurava la rigenerazione di una specie umana priva della tabe originaria della violenza, lo lascerebbe supporre. Ma c’è un piccolo particolare che rende dubbiosi: anche in questi ultimissimi dipinti di Marcolini appare il misterioso dittongo “ AU” che, a dispetto delle apparenze, non sta a indicare il simbolo chimico dell’oro, bensì è il traslato grafico di una voce gutturale, che per l’artista è l’equivalente del bla-bla, del parlare a vanvera, della presa per i fondelli, del chi pone interrogativi. E allora?

 

Carlo Melloni

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critica

del 2008

Giuliano Serafini

 

Nel segno del nodo

 

Archetipo d’indugio, d’impasse, di confluenza, di quanto, insomma, costituisce un’anomalia all’interno di un percorso, di un progetto, di due polarità rettilinee. Ma anche morfema squisitamente ideografico per contenere in sé il segno e l’immagine referente, per essere segno-immagine. Il nodo porta con sé un retaggio simbolico di secoli, fino ad approdare al nostro per farsi assumere dalla psicoanalisi e dal surrealismo.

 

In questo senso, almeno nella prima fase pittorica, Arnaldo Marcolini sembra essersi accostato al suo leit motiv. All’inizio è quella doppia valenza grafico-scritturale ed emblematica a sedurlo, con tutto il potenziale d’aneddotismo che ne deriva. E gli anni, che sono i Settanta, si presentano a meraviglia a un utilizzo socio-cultural-politico del segno, in un contesto neo-figurativo dove scrittura e media la fanno da padrone e il linguaggio visivo tira all’orizzontale, si conferma ai codici di massa, diventa “messaggio” scimmiottando in chiave estetica la sublime pochezza della pop art e l’apocalittico verbo di Mc Luhan.

 

Ma è quanto basta per scatenare nell’immaginazione di Marcolini una logorroica teoria di tematiche, di ritratti virtuali con tutto il loro bagaglio mitografico, di associazioni visionarie sostenute sempre da un’asettica cifra grafica. Intorno all’iconica del nodo, alfa e omega del suo microcosmo, la scena della vita, della società e della storia prende il via fino a manifestarsi come pura conflittualità.

 

C’è il muro di Berlino, il Vietnam, Seveso: tutte situazioni nodali, o meglio, prefigurazioni della cattiva coscienza del genere umano. Ma ci sono anche i pittori maudits, i tirannicidi, i nobel giudei, i banditi-eroi, i gangster, i grandi arroganti, personaggi invariabilmente “eccessivi” e riconducibili a una problematica individuale o collettiva.

 

E’ stato un uso, o forse un abuso, di contenuti. Ma l’artista “paga” sempre le svolte della propria ricerca e della propria crescita. Oggi, nel lavoro di Marcolini si assiste a un fenomeno opposto, sicuramente reattivo, né lo zeit geist potrebbe volere diversamente. L’artista ha capito che non gli competono più né investiture né “consegne”. E allora il segno di una volta appare come sublimato, in accezione kleeniana, diventando entità biomorfica, energia visiva che non chiede altro che di esistere all’interno della scena fattasi spazio mentale, algido contenitore di forme geometrizzanti altrettanto incapaci di giustificare la loro natura. Il nodo è ormai un memorandum dimenticato, ritrova (o si reinventa?) la propria identità di significante dissociandosi dalla storia e dal mondo per inseguire un destino che l’artista non è più in grado di imporgli.

 

Giuliano Serafini

Vittorio Stella (22 marzo 1986)

 

Egregio prof. Marcolini,

quella del 12 marzo è stata per me davvero una bella giornata. E sono rimasto contento di aver potuto constatare un ambiente di lavoro cordiale, fondato su un effettiva comunicazione. Ho particolarmente apprezzato, poi, la Sua comunicazione rivelatrice di una capacità d’individuazione di problemi e di una base culturale non comuni.

 

Vittorio Stella - Roma

Salvatore Di Bartolomeo

 

Volumen Codex - Da Alessandro Magno a me

 

Deciso, rapido il gesto che lasciò “attonita” l’intera Asia. Il nodo fu reciso; ma non fu risolta la procreatio del legame. Nel tempio di Gordio, capitale dell’antica Frigia, Alessandro Magno superò la difficoltà insormontabile, con estrema decisione, tagliando con la sua spada il nodo che legava il timone al giogo di carro, per l’Impero Asiatico. Fatidico sì, nella storia il Nodo di Gordio, ma non fu sciolto l’enigma, non si arrestò la procreazione del nodo. Anzi continuò e continua ancora: prolifera, sin dalla sua genesi inesorabilmente. L’annodare, il legame per esigenze bio/geofisico/religioso/culturale/economico/tradizionale, è parte indissolubile delle leggi della natura.

E’ da questa breve premessa, da questa intuizione storica del Nodo di Gordio che nasce l’idea del presente “Volume codex” di Arnaldo Marcolini, il quale proclama così la “summa” delle sue esperienze artistico-letterarie: [“Ascoltando il nodo di Gordio [la luce e poi tagliò [il nodo [ma il nodo automaticamente si riprodusse...”].

Quel nodo, che fu letto ed eletto, dall’artista in forma pittorica prima ed in scultura poi, negli anni Sessanta, è diventato motivo, oggetto di analisi e di ricerca del suo pensare e del suo fare. Certamente non come suggello, come imprimatur, o come stereotipo, sigla del manufatto artistico; ma come simbolo dell’essere, della vita di tutte le cose, “guardando” all’interno di esse. Ciò a dire di tutte le presenze esistenti nel quotidiano, nell’effimero, di tutto ciò che esiste nel micro e nel macrocosmo che nascono, vivono, si vincolano e muoiono per rinnovarsi in una nuova esistenza, in una nuova linfa: annodandosi. L’uomo, che viene alla luce proprio da un cordone ombelicale, nasce libero, lega e resta legato, al nodo della sua stessa vita, con tutte le sue implicanze esistenziali. E’ questa, in sintesi, la filosofia nodale di Arnaldo Marcolini, traslata in forma visiva e racchiusa in questa opera “coranica”. Non precetti. Ma pensieri liberi, asserzioni, citazioni citabili che l’artista piazza e spiazza; divagazioni o/e vacazioni di memoria: gli esempi porterebbero all’infinito. Infatti il noto artista piceno nel suo testo futur-dada “invoca” ADAMO che nella Genesi osò sciogliere il voto, il “nodo” che lo legava a Dio: il primo uomo, padre di Caino e Abele. Vincolo di sangue, di vita-morte. Cita, il mitologico ULISSE legato alla sua patria terra e annodato per la vita a Penelope; ci indica il biblico SALOMONE, re d’Israele, che trasformò il suo regno in uno stato unitario, centralizzato, vincolato alla sua saggezza. GIACOBBE, il patriarca legato alla primogenitura, comprata con un piatto di lenticchie. E poi il riferimento a LEONARDO: la scienza connessa alla natura; l’anatomia dell’uomo annodata all’anatomia delle “cose” e della Terra che, combinate insieme, si trasformano in macchine, in oggetti naturali, in esseri viventi. Dalla perfezione il dramma totale: il BOIA, che vive legato alla morte. Tra il tessere e il detessere, la trama dello scriptus marcoliniano, nel gioco di rivelazioni sensitive, ci porta alla ragione mitica, alla storia, ai fatti di cronaca, ai fasti e nefasti, al positivo e al negativo ai quali l’uomo, ineluttabilmente, non può sottrarsi. Anche nei suoi accenni, nelle sole indicazioni di nomi carpiti quasi a caso, come ad esempio POE, e ripercorrendo a ritroso la tortuosa vita e l’opera di questo famoso scrittore americano dal nome di Edgar Allan, l’artista ci fa attraversare la porta del delirium tremens, del simbolismo eccessivo, della paura e del mistero.

Nel moderno, Marcolini va oltre il metafisico dechirichiano anche in senso iconografico, esasperando l’azzeramento del colore, con “architecture anemique”. Si proietta ne post/patafisico + neo-dada. In questa complessa dialettica vengono fuori i suoi personaggi simbolici che costituiscono questo grande volume: “Opera omnia” 1986 – 1996. Un libro unico realizzato a mano in formato aulico (35 x 50) composto da 15 scritti corredati da altrettante opere originali fuori testo. Ecco Volumen codex, costituito da tavole rilegate, che si ricollega all’antico liber, una sorta di codice simbolico: l’arte per l’arte con i vari “miles”, soldato legato per la pugna, mercenarius miles, pedina prezzolata che sta al gioco della scacchiera della vita.

Il trionfatore miles gloriosus o il plautino miles sono coinvolti in una commedia degli errori, dove si intrecciano uomini perdigiorno, donnine allegre, parassiti con giochi di parole, allitterazioni e soliloquialità. Sono certamente immagini-simbolo, stati d’animo palesi, sottili e complessi. Comunque simboli. Qui l’omaggio va fatto a Boudelaire, a Moéas, a Mallarmé, a Rimbaud, a Valery, a D’Annunzio, come a Onofri e Campana.

Un’opera dove l’autore assume in sé tutta la libertà dell’uso della parola, una libertà letteraria che fu prerogativa, all’inizio siecle, dei futuristi italiani; il senso del non senso dada: quel movimento d’avanguardia sorto a Zurigo allo scoppiare del primo conflitto mondiale, al quale aderirono poeti, scrittori e pittori come Henning, Tzara, Harp, Janco, Richter, che intesero l’arte come senso della vita, participazione, giuoco, follia, automatismo. All’antirazionalismo si legò la dissacrazione delle forme e dei significati, la casualità, l’ironia. L’internazionalità del dadaismo, si annoda alle intuizioni, ai rinnovamenti o/e stravolgimenti di Picabia, Man Ray; ma soprattutto all’ alchimia e all’esoterismo di Marcel Duchamp. Con Rosenberg e il neo-dada, nasce la pop-arts, alla quale Marcolini si lega con raffinati ready-made.

E’ in questa cultura dell’arte mitteleuropea che va inquadrato il nuovo linguaggio artistico, la personalità, la figura del Marcolini ricercatore e sperimentalista. Mentre nella parte letteraria l’autore si affida in toto ad un “dialogo” liberatorio, ad un “arbitrio linguistico”, nelle tavole iconografiche di quest’opera assume un comportamento dicotomico. Non è pretestuoso, non addita la dissacrazione, l’automatismo consumistico, la società degli inerti, non è ermetico, si contrappone progettando e realizzando un’architettura della memoria. Realizza. Mette a fuoco tutta la sua esperienza di artista e di perizia tecnica. Il suo è un viaggio in una cosmogonia solare dove la geometria annulla la prospettiva cromatica, l’interferenza retinica. Prevale il segno, il monocromismo, la tridimensionalità; il piccolo oggetto d’uso sovrapposto è un segnale, una presenza del nostro tempo, non un orpello, in un’architettura di invenzione, di fantasia dell’io creativo. Surreale, appunto. L’artista ritorna alla bottega, al gusto della contatteria, alla manipolazione del materiale duttile e nei suoi manufatti artistici esalta la componente luce nell’abile giuoco di rigorosi spazi aperti tra lunette, quinte arabescheggianti, casellari “sacrali” e parallelogrammi dove sono collocati solidi e parallelepipedi: piramidi, cubi, cilindri, prisma; segni fonetici dell’automatismo: A-AU../..AUT e di classici nodi e personaggi marcoliniani che ruotano con una sottile ironia di un barocco idealizzato. Sono tracce nuove per un linguaggio diverso della pittura. Uno stimolo, un invito aperto al visuale per un dialogo con il silenzio, terso, in uno spazio ideale per trovare la propria identità in un’era in cui sono accorciati i tempi degli avvenimenti e accelerate e moltiplicate le vicissitudini dell’uomo: nodi del Medio Evo del terzo millennio.

 

Salvatore di Bartolomeo

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